John Carpenter – Il regista da un altro mondo: Intervista all’autore
John Carpenter è un regista fuori dal tempo che ha raccontato, attraverso i suoi film, le contraddizioni dell’Occidente. Incompreso in patria e subito apprezzato nel nostro continente, si è spesso scontrato con gli Studios. La sua narrazione, difatti, non si è mai inquadrata nei canoni delle major americane, favorendo una visione della realtà tanto cupa quanto profetica.
Il saggio John Carpenter – Il regista da un altro mondo – acquistabile qui e in libreria – ripercorre la sua carriera dagli esordi fino alle ultime fatiche. Una carrellata di film, molti dei quali diventati veri e propri cult anche al di fuori del genere fantastico e horror, rapportati al contesto sociale entro il quale sono stati rilasciati, insieme ad aneddoti e approfondimenti sulla figura di questo straordinario Maestro.
Edoardo Trevisani, autore del volume a lui dedicato, ha risposto ad alcune nostre domande.
Perché definisci John Carpenter un “regista da un altro mondo”?
Si tratta di una citazione: La cosa da un altro mondo è un film di Christian Nyby, del 1951, del quale John Carpenter girò un suo personale remake nel 1982, uno dei suoi film più importanti. È un’idea che serve a sottolineare da un lato il legame del regista con il cinema classico, dall’altro la sua l’eccezionalità come autore. Carpenter è un regista unico per stile, coerenza, sguardo politico. È un regista fuori dal tempo, come i suoi eroi, che ha lottato per portare avanti la sua idea di cinema a costo di scontrarsi con i produttori. È una bomba che vuole far saltare il sistema. Appartiene al mondo dei classici, ma si muove in un paesaggio in cui non c’è più posto per gli eroi e per l’epica del cinema classico.
Come mai è più apprezzato in Europa che in America?
I suoi film restituivano una visione dell’America troppo pessimista, il suo stile ha sempre qualcosa di radicale. Nonostante abbia come riferimento il cinema classico americano, ha sempre cercato di spingersi oltre i canoni stabiliti dalle major e questo è stato un problema per lui. Il caso de La cosa è emblematico: fu un film che scioccò il pubblico, era troppo pessimista, violento, cupo. In contemporanea i cinema proiettavano la favola edificante di ET. E il pubblico preferì la fantascienza di Spielberg a quella di Carpenter. In Europa è stato diverso, i critici e i cineasti europei hanno mostrato sempre attenzione per la dimensione autoriale dei registi d’oltreoceano. Carpenter non è l’unico caso, Woody Allen è più apprezzato da noi che in America, per esempio, ma si pensi anche ai giovani critici francesi che negli anni Sessanta riscoprirono il valore di autori come Hitchcock o Howard Hawks.
Ritieni che il suo lavoro risulti incompreso?
Oggi direi di no. Carpenter è una vera e propria leggenda, famoso e apprezzato in tutto il mondo, lo dimostra il premio ricevuto a Cannes. Sicuramente all’epoca il pubblico non comprese alcune sue scelte, come Grosso guaio a Chinatown, ma era solo perché come regista era in anticipo sui tempi. Il fatto che le sue opere siano state tutte rivalutate e che su di lui si contini a scrivere, vuol dire che oggi Carpenter è un punto di riferimento, sia per i semplici spettatori, che per gli addetti ai lavori.
Che tipo di evoluzione ha conosciuto la carriera di Carpenter?
Carpenter nasce come regista indipendente, i suoi primi lavori sono stati realizzati con budget ridotti. Il successo clamoroso di Halloween lo impose all’attenzione delle major, che compresero il suo valore come regista. Tuttavia, il disastro al botteghino de La Cosa gli impedì di lavorare serenamente con le grandi produzioni e non è un caso che alcuni dei suoi film migliori siano proprio quelli indipendenti, come Il signore del male. Parallelamente anche il suo sguardo nei confronti della società e dei mass media si è evoluto, il suo giudizio è diventato sempre più impietoso, e film come Essi vivono e Fuga da Los Angeles sono chiari esempi.
Quali sono i temi ricorrenti nei suoi lavori?
Il male, principalmente, che assedia l’uomo minando le proprie certezze, e che durante tutta la sua carriera ha assunto varie forme, dal volto mascherato di Michael Myers, alla nebbia di Fog, fino agli alieni di Essi vivono. È un male che spesso è legato al mondo dell’infanzia o al potere politico e finanziario e che si nutre delle nostre debolezze, come Christine, la macchina infernale dell’omonimo film che si impadronisce della volontà del protagonista perché fragile e insicuro.
Come nasce l’idea di dedicargli un saggio?
Il libro è in fondo un personale omaggio a uno dei miei registi preferiti. Avevo voglia di raccontare il cinema di Carpenter, i mostri e gli eroi che da sempre popolano la mia fantasia, come quella di tanti spettatori che sono cresciuti con i suoi film.
In che modo è strutturato il volume John Carpenter – Il regista da un altro mondo?
Il libro ripercorre l’intera carriera di Carpenter, si sofferma su tutti i suoi film, cercando di descrivere l’evolversi della sua poetica, anche in rapporto al contesto sociale nel quale sono stati girati.
Perché ne consiglieresti la lettura?
Questa è una domanda da rivolgere ai lettori che eventualmente apprezzeranno il libro. Io posso dire che il mio libro vuole raccontare Carpenter e allo stesso tempo omaggiare una stagione cinematografica fondamentale, perché ha raccontato paure, conflitti, insicurezze e contraddizioni di una società, quella americana (ma di conseguenza anche quella occidentale), che assisteva a cambiamenti epocali. Ma queste paure e questi conflitti non sono ancora stati risolti, anzi, col passare del tempo le cose si sono complicate ancora di più. Forse è questo il motivo per il quale John Carpenter è ancora così apprezzato: lui aveva previsto il declino della nostra società. Da questo punto di vista la sua “trilogia dell’apocalisse” è stata profetica.