David Lynch – E il naufragar m’è dolce in questo mare di idee

Nessuno è mai in controllo, nessuno comprende il flusso che scandisce il nostro stare al mondo.
Nessuno tranne David Lynch (Missoula, Montana, 1946), uno dei più grandi registi della storia del cinema e artista a tutto tondo.
Si tratta di un dono il suo? Di spiritualità? Di fiducia nei propri mezzi? No, si tratta semplicemente di una misteriosa capacità di lasciarsi andare, di pensare attivamente, di togliere il velo che avvolge l’apparenza delle cose per scoprirne magicamente l’essenza; ossia lo stesso approccio che Lynch richiede ai suoi spettatori.
La superficialità gli è nemica e la creatività è sempre al suo fianco.

Basta guardare (o meglio subire) la sua opera prima, Eraserhead, per rendersi conto di tutto ciò: il malessere di un uomo immerso nelle sabbie mobili di un mondo inospitale e asfissiante in cui c’è posto solo per il disagio. In Paradiso va tutto bene ma sulla Terra non c’è mai fine al peggio.

L’onda di travolgente negatività cavalcata dal suo primo film lascia spazio alla sensibilità estrema con cui viene trattato il protagonista di The Elephant Man, un uomo deforme e ferito nell’animo ma in grado di esprimere una dignità accecante. Dignità e bontà che lo porteranno (ancora una volta) in Paradiso, poiché la Terra non è la casa del Bene.

Il successo e la qualità di questa pellicola lo porteranno a girare Dune, sulla carta un capolavoro annunciato. Purtroppo il film verrà massacrato al montaggio (che Lynch non poteva controllare) e lascerà intravedere soltanto qualche lampo del suo talento.

Ma si riscatta immediatamente con Velluto Blu, in cui il clamoroso incipit descrive alla perfezione le due facce della vita e della natura (umana e non). In un quartiere “standard” degli Stati Uniti – e non potrebbe essere altrove – dove sono nati, cresciuti e morti decine di milioni di americani, la vita scorre lineare tra sorrisi falsi e prati ben curati. Ma dietro la porta di casa pitturata di bianco con la maniglia lucidata, una volta chiuse le tende, l’animo umano si toglie la maschera.

Dopo il malessere, il disagio, la solitudine e la perversione, Lynch concepisce Cuore Selvaggio come una fiaba all’insegna della follia e dell’istintività più sfrenate. Fondamentalmente è un film sull’amore, su quanto un sentimento positivo come la tensione reciproca e magnetica tra due persone possa scoperchiare sfaccettature sconosciute della personalità come la malvagità, l’attaccamento morboso ma anche la voglia di superare qualsiasi limite. Sullo sfondo un bestiario umano di rara finezza.

 

L’opera più concettuale, complessa e magmatica di Lynch è senza dubbio I Segreti di Twin Peaks cui si aggiunge Fuoco Cammina con Me!, una sorta di prequel. Un racconto lungo 25 anni in cui il regista fornisce la sua personalissima visione dell’universo e (come detto all’inizio) dello stare al mondo degli uomini. Se la filmografia di Lynch fosse un albero, le tre stagioni di Twin Peaks sarebbero le radici, i temi universali da declinare in tutte le forme (i rami) possibili.

 

Il trittico composto da Strade Perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE inaugura un nuovo corso nella filmografia lynchiana. Le opere precedenti erano concentrate sul lato emozionale e incontrollabile dei pensieri ma il bisogno di sperimentare porta Lynch a scendere ancora più in profondità: cosa c’è di più inafferrabile delle sensazioni che la nostra mente genera?
La mente stessa.

Ed è quindi con un approccio sostanzialmente psicanalitico (visti i personaggi sarebbe forse più appropriato definirlo psichiatrico) che analizza la gelosia e la colpa in Strade Perdute, l’ambizione e il fallimento in Mulholland Drive, la speranza di una vita migliore in INLAND EMPIRE. Nessuno nella storia del cinema era mai riuscito a sovrapporre perfettamente ciò che succede sullo schermo al giudizio che l’intelletto restituisce della realtà, qualcosa che va oltre la definizione stessa della settima arte.

Una Storia Vera compone un felicissimo e struggente intermezzo tra Strade Perdute e Mulholland Drive. Per certi versi un unicum nell’universo di celluloide lynchiano, realizzato però con eccezionale coerenza teoretica e con il solito profondo, scrupoloso occhio da indagatore delle sensazioni. In questo caso si vira verso la malinconia e gli affetti, quelli importanti e indissolubili che il tempo sfilaccia ma non dissolve; perché non va dimenticato che sotto quella coltre apparentemente granitica di incomprensibilità Lynch nasconde ottimismo e positività da grande meditatore quale lui è.
C’è sempre (o quasi) una possibilità di redenzione, basta seguire correttamente il flusso e farsi portare dalla vita fino al proprio posto nel mondo.

La filmografia di David Lynch , presente integralmente all’interno del saggio edito da Edizioni NPE, è solo la punta dell’iceberg di un furore creativo fluido e senza controllo: cortometraggi, videoarte, musica, quadri, sculture, artigianato, scrittura, trascendenza. Sono tutti mezzi con cui affogare nella speculazione e raggiungere il fine ultimo, grandioso: la conoscenza di se stessi e del mondo nella sua complessità, un’esperienza che, a giudicare dalla sua arte, ha infinite sfumature. E non tutte piacevoli.

Valerio Monacò